Studenti “diversamente abili”?

Con piacere copio e pubblico una lettera al Ministro Gelmini sulla definizione “diversamente abili”. Un mio amico che è cieco un giorno mi disse: “io sono cieco, odio quando si riferiscono a me con dei giri di parole che mi fanno sentire ancora più inadeguato!”. Il senso della missiva, molto più pertinente del piccolo aneddoto da me citato, è comunque questo.

Grazie Enza per la segnalazione!

Alla cortese attenzione dell’onorevole Mariastella Gelmini e p.c. Presidente CNUDD Prof. Paolo Valerio

Oggetto: osservazioni sull’espressione “studenti diversamente abili” utilizzata nel decreto per i criteri ripartizione stanziamento per interventi studenti diversamente abili anno 2008

Illustrissimo Sig. Ministro,

sono un operatore che lavora da anni nel campo della disabilità e in particolare nei Servizi universitari di supporto agli studenti universitari con disabilità.

Le scrivo sollecitato dalla lettura del Decreto Ministeriale 28 agosto 2008 prot. n. 159/2008, da Lei firmato, in cui campeggia l’espressione “studenti diversamente abili”, sulla quale vorrei proporLe alcune brevi considerazioni.

Mi permetta di partire da una frase illuminante di Giuseppe Pontiggia apposta come dedica a un suo bel libro: «A tutte le persone disabili che lottano, non per diventare uguali agli altri, ma se stessi». Tale dedica ci interpella tutti, nessuno escluso.

In nessun ambito della vita le parole sono chiacchiere, tantomeno nell’ambito del sistema formativo formale (quello di Sua competenza come Ministro): nella correzione dei temi contano perfino gli accenti e gli apostrofi, si immagini quindi il peso specifico delle parole! La mia non vuole essere una mera disputa lessicografica o semantica, nell’uso di certi termini sono in ballo questioni più profonde, che concernono il rispetto vero delle persone, delle loro storie di vita e della loro condizione esistenziale.

L’espressione “studenti diversamente abili” è sempre più diffusa nel mondo dell’informazione e della politica, ma moltissimi fra i più competenti, preparati e appassionati operatori italiani nell’area delle disabilità hanno eccepito vigorosamente su di essa. Le riporto alcuni esempi: la teologa Adriana Zarri scrive che questa «ridicola e ipocrita definizione rappresenta il colmo dell’imbarbarimento e, in fondo, dimostra una mancata accettazione di uno stato di difficoltà»; Andrea Pancaldi parla di termine «carico di ambiguità»; il giornalista Franco Bomprezzi denuncia una «deriva linguistica che, nell’enfatizzare le capacità di alcuni, ignora le persone con maggiori difficoltà». Carlo Giacobini, poi, descrive il “neologismo” con acuta ironia come «un ansiolitico linguistico, utile al massimo a mettere in pace la coscienza di coloro che non si sono mai fatti carico sino in fondo di questi problemi».

Personalmente ritengo che si tratti di un tentativo maldestro di “sdoganare” le disabilità, rimuovendo (o se si preferisce camuffando) le difficoltà reali che assillano giorno per giorno gli studenti universitari con disabilità. Invece di lottare per affermare nella prassi quotidiana il diritto all’uguaglianza di opportunità, si inseguono goffamente modelli efficientisti ed estetici. Qualcuno potrebbe obiettare che l’espressione mira a valorizzare le abilità residue (quando ci sono), il che è sicuramente doveroso ma ha come indispensabile presupposto il riconoscimento leale e oggettivo delle limitazioni delle attività, non la loro rimozione attraverso operazioni di ‘cosmesi comunicativa’.

L’inserimento e l’inclusione sono possibili, da una parte, mediante provvedimenti amministrativi che favoriscano i progetti di vita indipendente di ciascuno (e quindi mettendo in campo investimenti); dall’altra, attraverso processi culturali di accettazione lunghi e complessi, che non solo non passano attraverso la proposta di nuove e ambigue definizioni ma possono addirittura essere da esse ostacolati.
Gli studenti universitari con disabilità hanno bisogno di servizi, e non di questi biglietti da visita ingenui, e anche fuorvianti.

Infine, vale la pena ricordare che il termine diversamente abile non ha nessun rigore scientifico, né alcuna valenza sul piano legislativo ed è intraducibile in altre lingue. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che il 22/5/2001 ha approvato la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, suggerisce di usare il termine “persone disabili” o “persone con disabilità”.Mi auguro, Sig. Ministro, che non voglia liquidare questa mia lettera come un semplice esercizio di pedanteria e puntigliosità semantica, ma intenderla come un piccolo contributo sulla strada da percorrere per la piena promozione dei diritti di cittadinanza delle persone con disabilità e per la creazione delle condizioni perché possano essere se stesse e non quello che noi vogliamo che siano.

E allora, mi creda Sig. Ministro, tutti noi saremo più autenticamente noi stessi.

Napoli 19/01/2009
Carmine Rizzo

7 commenti
  1. squatter dice:

    Scusate, ma non condivido..
    Personalmente ritengo questo “un semplice esercizio di pedanteria e puntigliosità semantica” che sposta il centro dell’attenzione dalla problematica disabilità alla formula più adatta di definizione.
    Credo che la scelta linguistica sia l’ultimo dei problemi che un disabile incontra nel suo difficile percorso di inserimento in una società che non lo vuole e non lo aiuta, e ridurre le nostre considerazioni di persone solidali e sensibili all’utilizzo di un termine o di un altro mi sembra molto offensivo.
    Scusate lo sfogo, ma mi sembra che a volte, a forza di discutere della forma delle cose, se ne perda completamente di vista la sostanza..

  2. Panzallaria dice:

    bho, cara squatter, ma a me sembra che anche questa lettera esprima esattamente quello che dici tu. cioé che non è preservando il disabile con la forma linguistica sostenibile che fai davvero qualcosa per lui…

    secondo me state proprio dicendo la stessa cosa. io la penso esattamente come te e per questo ho pubblicato la lettera.

  3. Pietro dice:

    L’Inail il suo portale per la disabilità l’ha chiamato così: http://www.superabile.it, da un’idea di Bonprezzi, disabile. La diatriba è vecchia di almeno 5-6 anni. Credo che la definizione diversamente abile faccia parte di quel politicamente corretto, che fa tanto piacere a qualcuno e che fa terribilmente incazzare qualcun altro. In una maniera o nell’altra, qualcuno lo farai sempre scontento. Comunque il fatto che all’estero i portatori di hanycap non abbiano altra definizione al di fuori di disabili, fa pensare che in realtà sia questa la definizione più corretta.

  4. Silvia dice:

    Questo è un argomento stra-spinoso.
    E si tratta di una no-win situation: qualunque approccio crea scontento e disagio.
    Le associazioni di persone disabili, in genere, sono molto attente ai termini che sono utilizzati, mentre tra i singoli trovi di tutto: gente che si arrabbia e se la prende sia a favore sia contro l’uso di termini politically correct (anni fa ho assisto allo sbotto: “Ma quale NON UDENTE, io sono SORDO! Adesso inzio a dire che uno che ci sente è un NON SORDO …”) e persone che non danno peso a queste parole.

    L’0rganizzazione mondiale della sanità ha dato una definizione ufficiale di menomazione (qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche), disabilità (qualsiasi restrizione o carenza, conseguente a una menomazione, delle capacità di svolgere un’attività nel modo o nei limiti ritenuti normali per un essere umano) e handicap (condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita e impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio).
    Secondo queste definizioni, quindi, se consideriamo un cieco (il nostro amico comune, ad esempio): la cecità è la menomazione, la disabilità è data dalle conseguenze dirette di questa menomazione nella vita di tutti i giorni (ad esempio, il fatto che lui non possa guidare l’auto), l’handicap, invece, è la condizione di svantaggio che deriva dalla menomazione e dalla disabilità (se consideriamo sempre l’esempio dell’auto, l’handicap è il fatto che il soggetto in questione deve spostarsi necessariamente con mezzi pubblici o a piedi o facendosi scarrozzare da amici e parenti).

    Detto tutto ciò: le parole possono essere più o meno importanti, possono fare male, possono indignare oppure possono scivolarci addosso ed esserci indifferenti.
    A volte sono solo la punta di un iceberg, a volte sono una facciata ipocrita.
    Le azioni e le omissioni sono peggio, non c’è che dire.
    Io e il nostro comune amico un pomeriggio dovevamo incontrarti sotto i portici, di fronte alla stazione di Bologna.
    Mentre io tenevo d’occhio la fermata del suo autobus, lui è arrivato con un’altra navetta ed è passato alle mie spalle (ok, lui è cieco e io sono rincoglionita) cercandomi alla fermata un po’ più in là.
    Fatto sta che alla sua richiesta di informazioni alle persone che aspettavano l’autobus (“scusi, c’è mica una tipa mora e rincoglionita qua nei paraggi?”) nessuno, e dico nessuno, gli ha rivolto la parola. Molti si sono proprio scansati e allontanati nell’errata convinzione di potersi nascondere dietro al suo bastone bianco, chissà perchè poi. Io ho sentito la sua voce e l’ho raggiunto.
    Io: “Ehi, come va? Tutto ok?”
    Lui: “Sì, sì, anche se l’immigrazione qua a Bologna è sempre in aumento”
    Io: “Eh?”
    Lui: “Eh, si vede che nessuna delle persone qua alla fermata capisce la nostra lingua, saranno tutti stranieri … Non mi ha risposto mica nessuno”.
    Non era il primo episodio del genere e non sarà certo l’ultimo.

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