Lo stereotipo della madre che piace tanto alle donne
Gli stereotipi non sono solo quelli che promuovono univocamente il valore sessuale della donna. Ce ne sono di altrettanto pervasivi ma forse anche più subdoli e pericolosi sui quali è necessario riflettere se vogliamo emanciparci da una visione granitica del femminile.
Lo stereotipo della “madre di famiglia” è per certi versi molto peggiore di quello della “pupa” perché è stato introiettato e naturalizzato da molte persone e non solo di sesso maschile.
Leggere questo articolo del quotidiano “L’Unità” in cui Emanuela Valente riflette sulle reazioni delle donne italiane a proposito della legge 1204/71 e la successiva 53/2000 che vieta il licenziamento in maternità e fino al compimento del primo anno del bambino, determina il diritto all’astensione obbligatoria e facoltativa, alla retribuzione e all’allattamento mi ha dato modo di focalizzare in pieno una questione che da un po’ mi frulla in testa.
Le mamme subiscono e modellano lo stereotipo della mamma perfetta: ci sono caduta anche io e solo a forza di sangue e sudore sono riuscita a comprendere che l’unico tipo di madre che ambisco essere è quella che sono.
Le donne (e non solo quelle che hanno figli) a loro volta modellano e subiscono lo stereotipo della mamma che deve sacrificarsi per i figli, scegliere tra lavoro e famiglia e ringraziare quando può conciliare – in una sorta di senso di colpa perenne per la grazia ricevuta – una vita fatta di impegno sociale e soddisfazioni familiari.
Molte donne (non tutte, non sempre) se parli di lavoro e famiglia sono subito pronte a scannarsi tra loro, rivendicando diritti e doveri e ricordando a chi ha figli che ha fatto una scelta che implica per forza delle rinunce di carriera.
Dall’altra parte, molte dirigenti, imprenditrici, ecc che per arrivare dove sono arrivate hanno dovuto lottare con le unghie e i denti non sono disposte a cedere il passo a coloro che hanno scelto la famiglia in un periodo della propria vita.
Ci dovevano pensare prima.
Ci si arrabbia sempre un po’ a vicenda. Ci si accusa, si impongono modi di vedere le cose senza accorgerci che ci stiamo facendo la guerra e abbiamo abdicato i nostri diritti a favore dello stereotipo di donna con le palle che di volta in volta predomina.
Perché anche gli stereotipi cambiano e si evolvono ma sono stereotipi quando impediscono il dialogo e formano nella mente di chi li osserva, sposa, sceglie, la convinzione che partecipare a un’etichetta sia equivalente a sposare un analogo e univoco sistema di pensiero.
L’articolo de “l’Unità” si conclude con un pensiero che condivido in pieno:
Inutile pensare di combattere una battaglia se prima non si addestrano i soldati. Questo è quanto devo amaramente concludere riflettendo sulle polemiche innescate da un articolo che, al limite, avrebbe dovuto infastidire i miei ex datori di lavoro, e non scatenare battibecchi dell’anteguerra sulla giusta cura della casa e il galateo della buona madre di famiglia. La legge è fatta, ora bisogna fare le italiane.
sono diventata madre subito dopo la mia segretaria. prima gravidanza per entrambe, lavorato gomito a gomito fino alla rottura delle acque. e poi subito al lavoro. entrambe. son tetta fuori e pannoloni. poi i bambini crescono. io purtroppo non ne ho avuti altri, la mia segretaria una seconda gravidanza a distanza di 12 anni dalla prima. l’ho obbligata a stare a casa. ho preteso che si prendesse tutti i mesi possibili di concentrazione per la sua nuova vita. che l’abbiamo capito tardi che i primi momenti non tornano più. nessun momento torna. ma una madre ha bisogno di vivere e imparare e coccolarsi e coccolare quando ancora l’uccellino è dentro il nido. poi ci sono quelle che se ne approfittano e vanno ai caraibi e lasciano il pupo al papà…ma sono altre storie
sai, questa cosa dello stereotipo della mamma mi spaventa un pò. Inizio a sentirmi chiedere cosa ho intenzione di fare io, precaria, quando vorrò un figlio.
Io non lo so.
Cosa posso rispondere? Il tuo post mi fa riflettere.
Condivido sia il tuo post che la conclusione dell’articolo.
Proprio recentemente ho avuto una accesa discussione riguardo al diritto della maternità.
E’ sempre triste vedere come certi diritti, che dovrebbero essere acquistiti, vengono messi in discussione proprio dalle donne.
Magari perché è più semplice darci addosso tra noi piuttosto che affrontare un capo, o un direttore del personale, o la propria coscienza. Se lavoro e famiglia diventano alternative inconciliabili siamo danneggiati tutti, genitori e non.
Da non mamma lavoratrice spero tanto che vi riproduciate come conigli, in modo che qualcuno mi paghi la pensione a fine carriera:-)
Non sono madre e nel mio futuro non ci sono bambini in arrivo. Ma la tutela delle madri (e in questo caso spenderei anche qualche parola sui diritti dei padri) è un aspetto che di grande civiltà in una società. Consentire ai genitori di occuparsi nel miglior modo possibile dei propri figli, consentendogli di avere una vita lavorativa stabile e compatibile con gli impegni familiare non può che risolevvare un sistema sociale sull’orlo del collasso.
E siamo sempre allo stesso punto: sono diritti acquisiti da anni di lotte femministe che però rischiano di non essere “sorvegliati”, come dice la Comencini in un suo articolo di inizio aprile sul corriere. Il femminismo ha fatto un sacco di scoperte e rivelaziooni e però esse debbono diventare ancora acquisiti e purtroppo sorvegliati in questa nostra società senza memoria.
Io sarei anche d’accordo. Se non fosse per una questione che forse è di sfumature. Se non fosse che poi nella vita quotidiana quando sei in maternità non è banale iniziare una vertenza col datore di lavoro (non è banale inziarla manco con l’amministratore del condominio, e non ha niente a che fare con la maternità). Se non fosse che qui non è neanche tanto questione dell’essere le donne nemiche delle donne, chè a me pare un po’ lo sport nazionale su ogni argomento spaccarsi a metà e dire tutto e il contrario di tutto. Teniamo la barra diritta, e andiamo avanti.
Poi ci sono anche delle sfumature che riguardano il concetto di sacrificio, e un tentativo di rovesciamento dello stereotipo della madre che si sacrifica che secondo me va nella direzione sbagliata.
Io penso che fare dei figli richieda dei sacrifici. E’ un impegno economico, è un impegno di tempo, forze, risorse. Poi, personalmente penso che questo sacrificio abbia una contropartita di valore enorme, e valga senz’altro la pena di essere fatto. E questo ovviamente non c’entra nulla con la tutela dei diritti.
Oggi mi sono trovata a discutere CON UN’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA e un MEDICO COMPETENTE (mica l’ultimo arrivato insomma) sul fatto che una dipendente con mansioni di ausiliaria nelle scuole materne e asili nido (ovvero quelle perosne meravigliose che riescono a sorridere anche quando debbono pulire il macello che fanno i bimbi a scuola…bagni compresi!) aveva l’ardire di voler stare a casa fino a 7 mesi dopo il parto.
ORRORE!
Il responsabile del personale scriveva che questa dipendente “non ha nulla A CUI ATTACCARSI”. Cosa?!!?
Punto primo si attacca a qualcosa come 5 o 6 norme di legge dagli anni ’50 a oggi.
Punto secondo ma se fosse tua moglie che va a pulire cessi e contemporaneamente allatta tuo figlio col rischio di passargli dall’epatite C alla TBC allo streptococco…cosa diresti brutto scimmione?!!?
Per dire che se da una parte OMS e Governo fanno campagna pro-famiglie, pro-allattamento, pro-aumento della natalità…dall’altro non LAVORANO (e non solo loro che la cultura è di tutti eh…) per questo.
Neanch’io sono ancora mamma, ma lavoro in un’azienda grande dove l’80% delle lavoratrici sono donne, e una buona parte di queste hanno dai 26 ai 40 anni. Questo significa che c’è quasi una nuova maternità al mese..e ogni volta assisto alla reazione delle colleghe: all’inizio gioia, felicitazioni alla futura mamma, qualche lacrima di commozione….poi non appena colei che ha dato la notizia se ne va cominciano i commenti:” Ce l’ha i genitori vicini?” “Come farà?” “Quando andrà in maternità, al 7° mese o prima?” “Quando rientrerà?”..Si fa una specie di analisi delle condizioni familiari, economiche e di salute della neomamma, e alla fine si dichara il giudizio: si, ce la farà a tornare a lavoro presto e si conserverà il posto, oppure no, non ha nessuno che l’aiuta, quindi chissà quando tornerà e soprattutto, chissà che mansione si troverà a svolgere al suo ritorno. Percepisco un senso di partecipazione, di compatimento da parte di chi c’è già passato, come se tutte pensassero che è il destino di ogni donna dover combattere contro mille ostacoli quando decide di avere un figlio. Come se la frase “Partorirai con dolore” dovesse essere proseguita con “…e con dolore e fatica combatterai per mantenerti il tuo lavoro, per crescere tuo figlio, per non sentirti sempre in difetto, contro i sensi di colpa, contro le critiche di tutti…” Quello che mi stupisce è che nessuna di loro provi sentimenti di ingiustizia e di ribellione! E’ così e sarà sempre così, rassegniamoci, sembrano pensare tutte……Tutte si sentono partecipi, ma perchè non c’è “l’unione che fa la forza”? Scusate la lunghezza!! 🙂