Tenera è la notte

Sveglia alle 4 del mattino. Ormai quasi un’abitudine. Ormai – quasi – ho imparato ad amare la dimensione notturna di questo periodo della mia vita. Mi alzo dopo circa mezz’ora (perché un tentativo di riaddormentarmi lo faccio sempre), mi trascino dietro la mia montagna di cuscini e mi sposto in sala, per non disturbare Tino che dorme.

Di solito i gatti mi seguono. Per loro – a quell’ora – inizia la giornata. Io mi accoccolo sul divano, sistemando la panza, e mi metto a leggere, a pensare, alle volte al pc.

Stamattinanotte ho finito, finalmente, il libro che stavo leggendo: L’ombra del vento di Zafò.
Un libro molto adatto alla notte. Per il quale ho pianto molto, anche se solitamente i finali consolatori non mi piacciono, mi sanno di film americano.

Ma qui la storia è un cerchio e forse solo ripartire dall’inizio, in maniera catartica e consolatoria, dava un senso a tutto il resto.

Ho pianto come quando si perde un amico, perché un libro ti diventa amico e perché spesso ci trovo dentro delle cose che sono anche nella mia vita.

La notte si accorcia, fino a quando l’alba non albeggia sui tetti di Condominio Bandiera e il mondo cambia, come se fossero due dimensioni diverse, quella notturna e il giorno, due mondi paralleli che sto cominciando a ri-conoscere.

Un tempo era perché tornavo alle 4 del mattino dopo essere stata fuori, ora è perché mi ci sveglio – causa panza – alle 4 del mattino… Ironia della sorte.

Sono contenta che il mio post su Cofferati abbia richiamato tanti commenti, anche se il constatare che “mal comune: mezzo gaudio” non è consolante.

Forse perché ho sempre pensato che “mal comune: epidemia”.
Al di là delle considerazioni peculiari di Bologna – che comunque resta una bellissima città, sia chiaro e non vogliamo darla per persa ma lottare per migliorarla – è sconcertante come le generazioni dei 20/30 enni ( tra un po’ anche 4o!) vivano situazioni così precariamente stabili.

Come tutti, con sfumature diverse, ci ritroviamo a pensare alla dimensione professionale e quotidiana dei nostri genitori come ad un mondo ormai finito che non ci appartiene più.

E quando guardiamo i nostri nonni, che una volta al mese vanno a ritirare la pensione, sappiamo che per noi non sarà così. E allora scacciamo i pensieri, perché prende l’angoscia al pensiero del domani, quando non saremo più abili e arruolati al lavoro e chissà se riusciremo a pagare l’affitto o a sfangare il mese.

Ma perché pensarci? Con le teste calde che ci governano può essere che noi vecchi non ci diventeremo mai, no? che qualcuno deciderà sorti planetarie molto prima. Magari non sarà un’enorme bomba, magari sarà solo un attentatino ad hoc, per riconfigurare le sorti del mondo a favore di questo e quello, ma forse – se tutto va come deve andare – il problema pensione non lo dovremo neppure affrontare.

Se invece ci salveremo il culo dalla politica, può essere che i nostri figli arrivino all’università. Per quando frollina avrà 18 anni, chissà quanto costerà l’università…

Io faccio la libera professione e attualmente sul c/c c’ho circa 3 euri, Tino ha uno stipendio fisso che per uno che lavora 10 ore al giorno non è proprio concorrenziale, però forse col tempo…

dai, la prima retta del primo anno forse riusciremo a pagarla. Magari facciamo fuori la suocera e ereditiamo, così non ci pensiamo più…

Insomma: non è che ci sia da stare tanto allegri in realtà. Ci si mette pure questa finanziaria – che per carità, io voglio pagare le tasse se serve a fare stare tutti un po’ meglio – ma che almeno non sia solo la nostra classe sociale a essere penalizzata che se no non mi sembra sia cambiato molto dall’era di Silvio…

a volte mi chiedo se ne siamo poi usciti, dall’era di silvio…come se fosse lui a tirare le fila di tutto, lui o qualcuno che gli assomiglia molto.

Però lamentarsi non serve senz’altro a nulla. Bisogna cominciare a fare, a fare tutti insieme. E se scioperano i precari della Feltrinelli non è solo un problema della Feltrinelli ma di tutti noi, e se scioperano i lavoratori in nero della fabbrica sticazzi, non dovrebbero essere soli a scendere in piazza e se scioperani i precari del comune o quelli di pincopallo o le badanti sfruttate o gli atipici o io, non è un problema di qualcun altro.

Dovrebbe essere un problema di tutti.

Personalmente ho scelto la libera professione. Sono sempre stata una di quelle cococo e cocopro (lavoro così da quando avevo 18 anni!) che lavorava come un dipendente, con orari e stipendio fisso.
L’anno scorso – al Museo dei Balocchi dove lavoravo – mi avevano prospettato un’assunzione a tempo indeterminato.
Fermo restando che il lavoro che facevo non mi piaceva più, che l’ambiente era sozzo e che mi avrebbero calato lo stipendio (che già non era una favola) e aumentato le ore lavorative, ho deciso di tentare con il mio sogno di fare la libera professione e quello che volevo e per cui ho studiato.

Quindi, diciamo che io sono un’atipica consenziente.
Almeno sulla carta.
Se poi la mia situazione, come quella di molti altri, si va a leggere nel dettaglio, vedi come si sia naturalizzato – tra la mia generazione – il senso di dover ringraziare chi ti offre lavoro, perché, comunque, ti sta facendo un favore.
Perché se come laureato riesci a fare qualcosa di decente, lo devi a “Loro” e per questo li devi pagare con il sangue: riunioni fino alle 10 di sera senza che la parola “straordinario” possa rientrare nel tuo vocabolario, abnegazione totale, casa e famiglia come cose che possono tranquillamente aspettare.

Perché loro ti danno un lavoro e tu devi baciare la terra su cui passano.
Loro ti danno un misero stipendio, ma domani potresti non averlo più, quindi sgobba, sgobba e ancora sgobba.

Perché hai voluto studiare e farti il culo per una professionalità a cui tenevi?
Bhé, caromio, tutto ha un prezzo e il bel lavoro si paga.

Eppure, il bello della nostra generazione è che rimaniamo allegri. Non c’è un futuro certo e rimaniamo allegri, spesso ci sposiamo pure e pure facciamo dei figli.

Senza pensare troppo al domani.
In bilico sulle nostre contraddizioni: paura del futuro e senso infinito del quotidiano, come se questo stato precariamente forte che ci contraddistingue oggi non dovesse finire mai…

Eppure – personalmente – riesco a essere felice. Di una nuova vita che sta arrivando e chissà cosa le potrò offrire, oltre alla tetta e – spero – tanto amore…

Ma vorrei fare qualcosa, per un giorno potere dire anche a lei: la mamma non è stata a guardare.

4 commenti
  1. Anonymous dice:

    ciao, son l’anonimo del post precedente.
    hai ragione panzallaria, alla fin fine precari e lavoratori a nero son consenzienti. Pur di mangiare e tirare a campare si farebbe di tutto.
    Però, come diceva il poeta, sopravvivere non è vivere. E la cosa triste è che mi rendo conto di essere fortunato. Fortunato perchè grazie ai miei genitori e a qualche lavoretto ho potuto studiare, laurearmi e master-izzarmi. In fondo quegli anni li rimpiango e mi mancano terribilmente, perchè ero giovane e avevo tanti progetti, tante cose da realizzare.
    Non tanto per diventare ricco e comprarmi il suv… avrei voluto fare ricerca biotech, ma di possibilità, tanto promesse prima di laurearmi, non ce ne erano…
    Adesso faccio il controllo qualità per emodialisi. So che è indispensabile per la salute di chi, sfortunamente, deve ricorrere a questo tipo di trattamenti, ma capirai che mettere delle crocette su fogli prestampati non è proprio la professionalità di cui università ed istituzioni sarebbero orgogliosi di sbandierare nelle loro statistiche post-laurea.
    Da quanto ho capito, almeno tu sei soddisfatta del tuo lavoro, cioè alzarsi al mattino non è un peso (a parte la panza che è un malanno passeggero), anzi! si ha voglia di fare e si corre via felici e ansiosi verso nuove mirabolanti avventure!
    Io quella sensazione non la provo da molto tempo. E mi dispiace perchè, secondo me, è il sale della vita.

  2. Chiara dice:

    Beh, che dire? La panza porta consiglio. Io ero più angosciata dalla situazione “morale” (mi sembrava di essere scivolata in un nuovo Medioevo di papi intoccabili, crociate, vecchi della montagna…), ma non è che un’altra faccia di quello che vedi tu. Anch’io mi ero ripromessa di fare qualcosa, ma purtroppo quando nascono ‘ste creature il tempo è talmente poco… per ora il mio “far qualcosa” è cercare di dare un esempio, non solo a mia figlia ma anche a tutti gli altri, per quel poco che riesco… 🙂
    Un bacione
    Chiara

  3. lemoni dice:

    Quanto mi è piaciuta la tua definizione: “Ma la nostra generazione sa rimanere allegra…” perchè è proprio così.
    quando fino a 4 mesi fà contavamo solo sul mio stipendio e qualche piccola entrata laterale ( recupero di qualche lira sul fallimento dell’impresa di Steve) io dicevo a tutti che era bello fare il padrone di casa e portare i pantaloni ( peccato però che S. fosse depresso e minacciasse il suicidio!)Vale a dire che comunque il senso dell’humor non l’ho mai perso…ma non l’ho perso perchè avevo quella faccia da cartone animato di mia figlia davanti, i suoi bacetti leggeri, i suoi discorsi sbellicapanza (senz’offesa eh!) come potevo pure io fammi prendere dalla tristezza? Che ripercussioni avrebbe avuto sulla sua tenerella età due genitori ubriachi di angoscia?
    Per cui, oggi che stiamo risalendo la china sono proprio contenta di aver avuto il sorriso ebete stampato sulla faccia (e molti dietro le spalle a dirmi ma che cazzo c’avrai da ride…) così mò faccio il gesto dell’ombrello a quelli e alla sfiga:sono immunizzata! TIE’

    Ciao stella mia
    Graziella

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