Vado dalla psicologa ma non sono matta
Solo i matti vanno dallo psicologo è uno di quei pensieri antichi della generazione precedente alla mia che ha – in qualche modo – condizionato anche me che sono una piccola provinciale con le pezze al culo.
Poi diciamolo, io di amiche che sono diventate psicologhe ne ho avute parecchie e ho sempre avuto un grosso problema di credibilità nei confronti della categoria: come posso affidare l’antro più recondito della mia anima a qualcuno che – non più tardi di 10 anni fa – avrebbe potuto ubriacarsi con me, sparando cazzate che tuttora ricordo nella top ten delle cazzate più cazzate mai sentite?
Sono questi i due motivi principali (tipici di una donna dall’intelletto fino e una maturità di tutto riguardo) per cui finora NON sono mai stata da uno psicologo.
Ecco, le cose sono cambiate e ho voluto, diciamo, dare un’occasione alla categoria. Tutto è successo dopo l’incidente di mia figlia, evento novembrino che mi ha messo nel frullatore e tirato fuori tanta di quella cacca emotiva da poter riempire i water di tutta Bologna. Mi sono guardata nelle palle degli occhi e ho detto: qui ci vuole lo psicologo, anche se non sono matta. Che poi, forse, un po’ matta lo sono, ma va bene così, ho 44 anni, anche se lo metto a curriculum ormai fa niente.
La prima volta non sapevo bene cosa aspettarmi, mi aveva detto questa psicologa mi raccomando, mi raccomando vieni per le 10.05, non un minuto prima, non un minuto dopo che con quello che ha l’appuntamento precedente NON devi incontrarti. Io alle 10.04, visto che ero già sotto il portone, mi sono messa a camminare per le strade limitrofe, con il cappuccio tirato su e un’aria tanto sospetta che mi chiedo come sia possibile che non hanno chiamato i carabinieri, che è anche una zona bene della città. Quando poi sono entrata, la psicologa secondo me ha pensato di aver fatto bingo, è riuscita a dire solo 3 parole in croce per la stessa cifra, io ripetevo che non sapevo perché fossi lì ma nel frattempo le ho tirato addosso una tal tempesta di logorrea che al confronto anche mia figlia, detta Radiolina, è una dilettante. Parlavo e piangevo, piangevo e parlavo come nel più banale degli immaginari. “Lei è molto narrativa”, ha commentato mentre uscivo, le ho risposto: “Oh, non sa quanto!” e poi dopo mi sono pentita: “Avrà mica pensato che era una minaccia?” mi sono detta mentre tornavo a casa con la bici e cominciavo a sentire tutti dei dolori al corpo che secondo me sono dolori narrativi anche quelli.
La seconda volta è riuscita a parlare e io le ho anche confidato quella cosa dei matti e della credibilità, non sono ancora riuscita a trovare il coraggio di chiederle perché non posso stendermi sul lettino ma sono sicura che – tempo un mese – sfondo anche questo tabù. Quando sono uscita mi girava la testa, mi aveva detto delle cose a cui non avevo mai pensato (e io sono una che pensa tantissimo, è stata brava) e sono stata muta per 2 ore. Sono stata muta per due ore: questa donna sta facendo un grande regalo all’umanità cui tocca frequentarmi.
Arrivo sempre dei minuti prima e non perché voglia spiare chi ha l’appuntamento precedente, sia chiaro, ma perché c’è in quei minuti prima del frullatore, un’attesa e una sospensione che mi attrae. Mi spaventa andare dalla dottoressa, ma nello stesso tempo sento che questa testa matta (ecco, il più trito degli stereotipi, non riesco mica a liberarmene) ne ha gran giovamento. Quando finisce la seduta, io pago e poi mi scappa sempre la pipì, come se la mia vescica avesse bisogno di liberarsi, anche lei, delle scorie. La dottoressa lo ha capito e le prime volte mi accompagnava, adesso forse sono diventata grande, mi dice che posso andare al bagno e uscire in autonomia, basta che il paziente successivo non mi incontri. Vado a pisciare come se mi stessi nascondendo nel bagno del treno perché non ho fatto il biglietto, ascolto ogni rumore che arriva da fuori e mi alzo dalla tazza solo quando sono certa che tutte le porte siano chiuse.
Andare dallo psicologo mi piace, poi c’è questa cosa del pagare che – indubbiamente – solleva da qualsiasi senso di colpa: per un’ora, una persona TI DEVE ascoltare, non ci sono cazzi. Andar dallo psicologo è una sofferenza, ma forse in questo momento ho bisogno di questa sofferenza, anzi ne sono abbastanza sicura e poi c’è un dato, un dato cui non avevo pensato, nemmeno io che esondo pensieri per ogni dove, che è che raccontare cazzi e mazzi della tua vita a una persona, ripartire da quando ci avevi il pannolino, trovare le parole, trovare il modo per spiegare delle situazioni a uno sconosciuto per farti capire è già di per sé un’opera di auto riflessione e di auto lettura non indifferente.
Andar dallo psicologo è fatica: poi torno con la mia bici, c’ho le gambe di legno, la testa che preme e vorrei solo dormire, ma se dormo faccio incubi e sogni strani che vorrei sempre scrivere e invece non li scrivo mai, ma me li ricordo tutti benissimo.
Poi c’è che io dalla psicologa porto il mio diario e dei momenti mi fermo, la guardo e le dico: scusi, scusi questa cosa la devo scrivere, mi potrebbe servire per un racconto.
Così unisco l’utile al dilettevole.
Io conosco più gente che va dalla strizza che gente che non ci va.. Di mio ho sempre avuto una sorta di insofferenza per tutto ciò che inizia per PSIC, pure quei 2 esami maledetti all’università..
Però c’è da dire che quelle sedute contate dalla psicologa del lavoro sono servite a rimettermi un po’ in sesto in un momento di caos totale.. Quindi quando avrò un po’ più di budget magari da uno bravo (che quindi non ci mette anno a risolvere) ci torno
Quel che ho apprezzato della mia è che mi ha detto che non si tratta di una terapia millenaria, concordo.
mi hai fatto pensare a tante cose. intanto anch’io ho sempre delle pipì elefantiache dopo un appuntamento con la psicologa (che io, per sdrammatizzare – evidentemente ho bisogno di sdrammatizzare, chiamo confidenzialmente la “strizzacervelli”).
poi: l’ultima da cui sono andata non è rigida sull’orario e, l’ultima volta, ho incrociato fuori dalla porta l’ultima persona che in quel momento e in quel contesto avrei voluto incontrare e così mezz’ora della seduta l’abbiamo passata a parlare di quell’incontro lì.
poi la questione del pagare. a te solleva dai sensi di colpa, a me mette una sorta di imbarazzo. “ma se ‘sto cristiano qui mi ascolta solo perchè lo pago, forse non c’è nessuno al mondo che mi ascolta volentieri gratis” (la tragedia in me).
anch’io dopo sono sfinita, spesso ho mal di testa e vorrei solo starmene al buio e in silenzio. o almeno in silenzio.
comunque davvero irvin yalom ci ha scritto libri su libri, ma lui stava dall’altra parte.
Penso la chiamerò “frullacervelli” la mia doc. Mi sembra adatto a come mi sento quando esco. Al fatto che LEI potrebbe scriverci un libro con le mie menate, proprio non ci avevo pensato 😉
Ho iniziato anche io da pochissimo e ti ringrazio per questo post, che rompe un po’ di taboo..
Dopo aver perso più di 60 kg mi sono resa conto che quello che mi faceva star male non era il mio peso, ma il vuoto attorno a me e per questo ho deciso di farmi aiutare a capire.
Comunque durante l’ultimo appuntamento ho pensato che è proprio vero quel detto che “in un mondo malato, i sani di mente vanno dallo psicologo” perchè alla fine mi rendo conto che quello che mi fa stare male è il disagio di non sapermi relazionare con gente matta davvero.
Comunque io appena arrivo chiedo di andare in bagno e appena finito idem 🙂
Il vero psicologo, è evidente, è il water 😉
Io ho un’altra storia. Una storia che se si rivela efficace mette la parola “fine” al lavoro di una psicologa. Circa 11 anni fa avrei voluto anch’io qualche bella seduta dalla psicologa. Ero seduta nella sala d’attesa del mio medico di famiglia, volevo degli antidepressivi, come quelli che aveva prescritto a mia madre. La sala d’attesa dava sulla strada e dalla vetrata vidi mio marito passare di lì per caso. Anche lui mi vide, per mia grande fortuna. Lo raggiunsi fuori e lui mi chiese “che ci fai qui?” e a me salirono subito le lacrime agli occhi e non riuscì a rispondergli. Allora, da bravo marito-padre e atleta che è sempre stato, aggiuse: “ritorna a casa, dai tuoi figli, ma prima fai una cosa più intelligente: vai a correre.” Può suonare un po’ da stronzo, ed effettivamente è stato come ricevere un calcio dritto nel culo. Fa molto male. Ma forse è stato quel dolore a destarmi. Mi comprò delle Saucony, una maglietta tecnica e dei calzoncini e mi spinse prepotentemente fuori di casa. Era il 2007 e da allora ho corso tante gare tra le quali mezze maratone e un paio di maratone. Non ho mai avuto bisogno di psicofarmaci, antidepressivi o sedite dalla psicologa (e nemmeno delle diete, ma questo tu lo sai già). Ma forse non ne avevo neanche bisogno, chissà. L’anno scorso mia figlia quattordicenne scrive ad una sua amica confidandogli che voleva suicidarsi. Sono crollata nuovamente e ci ho pensato seriamente. Volevo davvero l’aito di una professionista, ma non avevamo soldi e allora, per rinforzarmi, via di nuovo a fare gare su strada e trail impegnativi (la corsa è l’unico sport completamente gratuito e le gare, quelle dei paesi, il massimo che ti costano sono l’equivalente di un paio di pizze margherita). Di nuovo sono ritornata in possesso di me stessa e di mia figlia. Tutto ciò per dirti, in breve, che in questo caso, il psicologo non è lo psicologo e nemmeno il water. Per quanto mi riguarda è la corsa. :)))
Ciao Francesca. A presto.