20 maggio 2013: un anno dopo
Stavo dormendo. A un certo punto ho sentito il letto che si spostava. Stavo sognando e per un attimo ho pensato che succedesse solo nel mio sogno. Poi ho sentito Tino che con la voce alterata dal sonno urlava alla gatta di smettere. Mi sono svegliata di soprassalto. Tremava ancora. Anche Tino si è alzato. La gatta era già scappata a nascondersi. Ci siamo diretti di corsa in salotto. Il lampadario ballava. Ho detto “Il terremoto!” ed era già tutto finito. Ho guardato mia figlia, nella sua stanza. Dormiva. Avevo il cuore che batteva forte. Tino ha detto accendiamo la televisione. La televisione trasmetteva programmi notturni. Abbiamo guardato l’orologio, erano le tre. Ho aperto l’IPAD, ho aperto Twitter e su Twitter molte persone erano sveglie. Come me. Era stato il terremoto. Era domenica. Man mano che le informazioni si rincorrevano, che leggevamo tweet di altre persone, in provincia di Modena, a Ferrara, dalla nostra città, cominciavamo a capire cosa stava succedendo.
Non avevamo paura. Non ancora. Forse è un caso isolato.
Poi al pomeriggio la terra ha ripreso a tremare, ma più piano. Ogni scossa io guardavo il lampadario. Qualcosa si stringeva nella gola, ma ci avevano detto che l’epicentro era nelle campagne tra Modena e Ferrara e quel nodo era un misto di sollievo e di angoscia per quelli che abitavano lì. Anche per tanti amici o conoscenti.
Si fermerà bene, pensavamo tutti, a scuola ci hanno insegnato che viviamo in una regione sicura, dove i terremoti non arrivano. Eppure, nel giro di un lampo abbiamo preparato uno zaino con qualche cosa dentro, i vicini quella notte erano scesi in strada, noi no, ma abbiamo una bambina. Occorre che stiamo pronti.
Lo zaino è rimasto in corridoio: un caricabatterie, l’ipad, il pigiama e un cambio per frollina, un cambio per noi. Una coperta, anche. Le chiavi della macchina.
Nei giorni successivi tutto sembrava essersi calmato: ogni alito di vento ci faceva sussultare, c’era qualche scossa che – dicevano- era di assestamento. Si cominciavano a contare i danni nell’Emilia colpita al cuore, si cominciavano a sentire le storie.
Io mi sentivo in colpa. La colpa di essere scampati, il sollievo di essere scampati. Avevamo individuato il muro portante di casa e spiegato a nostra figlia che se sentiva tremare doveva mettersi lì sotto, ascoltare mamma e papà e non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene.
Una settimana dopo, che c’era stata un’altra scossa più debole, allora ci eravamo messi sotto la porta insieme, Frollina stretta a me, che cercavo di rimanere calma. Poi eravamo andati al parco.
Il 29 maggio eravamo tutti più tranquilli. Così la sera prima Frollina era voluta andare a dormire dai nonni, le avevamo detto di si. Eravamo anche usciti. Al mattino ero in cucina. Tino si doveva ancora svegliare, un bel sole filtrava in cucina. Sembra più bella la nostra cucina, quando al mattino, specie di maggio, filtra il sole dal grande albero davanti alla finestra.
Stavo avvitando la macchinetta per metterla sul fuoco quando ho sentito come una specie di boato, un rumore che non avevo mai sentito prima. Ero scalza e ho avuto come l’impressione che il pavimento di piastrelle mi inghiottisse. La casa, d’un tratto, mi è sembrata tanto poco sicura!
Ho urlato, sono corsa in camera da Tino. Mi ha telefonato mia mamma. Poi ho pensato a mia figlia. Cinque minuti. Erano passati solo cinque minuti da quella scossa, che era forte ma diversa da quella del 20 maggio. Dobbiamo andare a scuola, a vedere se silvia è arrivata, che era coi nonni. Chiamiamo i tuoi Tino, voglio sapere se va tutto bene. I telefoni non funzionavano, era tutto muto. Siamo scesi in strada, volevo solo andare alla scuola materna di mia figlia, sapere se andava tutto bene. Per strada la gente era molto scossa, tutti fuori dalle case, tutti fuori dagli uffici. Chi aveva un telefono lo teneva in mano, ma il telefono non funzionava, per un po’ non ha funzionato nemmeno la Rete.
A scuola non siamo entrati. C’era un gruppo di genitori di fianco alla rete del cortile, guardavano tutti i bambini. C’era anche Frollina, correva e si divertiva con i suoi amici. Le maestre avevano trasferito tutti i tavoli fuori, ci hanno detto che avrebbero passato la giornata in giardino, di stare pronti, che se arrivava un’altra scossa chiudevano tutto, di andare a prendere i bambini, ma per il momento erano sicuri.
A piano terra.
Sono tornata a casa. A mezzogiorno ho deciso di andare a prendere Frollina al parco. Non riuscivo a lavorare, pensavo poco. Avevo cominciato a fare questa cosa di pubblicare annunci di persone che mettevano a disposizione camper e roulotte per gli sfollati, ogni 5 minuti mi chiamava qualcuno da Cavezzo, Mirandola, San Possidonio, San Felice sul Panaro. Per sapere se avevo notizie di un mezzo adatto alla sua famiglia. Avevo fatto un file. Come avrei fatto per un lavoro. Con numeri, marche, modelli, disponibilità, situazioni. Non sapevo se stavo facendo bene, ma ormai non potevo sottrarmi, la voce si era diffusa e le telefonate si moltiplicavano.
Verso l’una ero in casa da sola. Stavo raccogliendo le cose per passare la giornata al parco. Volevo solo stare in un posto all’aperto. Possibilmente con mia figlia, con il mio compagno. Su Twitter dicevano che le scuole, dal giorno dopo, sarebbero state chiuse per sicurezza.
Quando è arrivata la scossa dell’una, ho sentito tintinnare i giochi di frollina in camera, le porte si muovevano, i lampadari ballavano. Ho detto rimani calma, stai calma. Mi si è asciugata la gola. Ho pensato adesso muoio, adesso crolla tutto. Non voglio morire qui, da sola. Lontana da mia figlia e da chi amo. Ho afferrato lo zaino e ho fatto l’unica cosa che non avrei dovuto fare: ho cominciato a correre giù per le scale del palazzo. Avevo la nausea, mi sembrava che tutto intorno a me crollasse, tenevo stretto in una mano il macchinino dell’asma, perché sentivo il fiato corto arrivare, il rantolo stava prendendo il sopravvento sui pensieri, su tutto.
In strada c’era una mia vicina dell’ultimo piano. Una studentessa. Non so perché, ma vederla mi ha messo una gran gioia. L’ho abbracciata. Mi sono ricomposta. Sono corsa a scuola. Per strada c’erano molte persone. Alcune ridevano di un riso isterico, altre piangevano. Una – non me la dimenticherò mai, una signora velata – diceva questa è la fine del mondo, così vuole dio.
Sono andata alla Materna. Le maestre erano molto provate. Mi hanno detto che avevano visto tremare il palazzone davanti. Un colosso di 8 piani. Mi hanno detto prendi silvia e portarla al parco. Ho detto datemi anche questa e quel bambino, chiamo le mamme, li porto al parco.
Siamo usciti: loro erano divertiti, c’era questa atmosfera surreale, poi con l’afa e il caldo tutto era avvolto in una strana cappa onirica.
Siamo stati al parco, in tanti, c’erano anziane che si erano portate le sedie, c’erano giovani con i libri, c’erano tantissimi bambini. Ci siamo messi sotto a un albero. Una mamma aveva portato le ciliege. Siamo stati lì fino a quando non ha fatto notte. Io cercavo di leggere le notizie da twitter, che in quel momento mi sembrava lo strumento più affidabile.
Quando il 2 giugno siamo stati a Cavezzo e a Rovereto sulla Secchia per aiutare, io quel giorno lì ho capito che tutto quello che avevo sentito non era che un’eco lontana di quello che le persone di quel posto stavano provando.
Per alcuni mesi il mio zaino è rimasto in corridoio. Ho imparato a individuare subito i muri portanti dei palazzi in cui andavo. Mi vergognavo molto della mia paura. Oggi per la prima volta racconto diffusamente quei giorni, per me.
Uno si sente sicuro a casa propria, questa è la mia verità. E il giorno in cui nemmeno a casa propria ci si sente sicuri, è il giorno in cui si deve fare i conti con quel lato della nostra umanità che più ci terrorizza. Forse non avrei dovuto correre sulle scale il 29 maggio 2013.
Forse avrei dovuto rimanere più fredda. Forse avrei dovuto anche rendermi più utile per chi davvero stava male.
Questi sono i dubbi che mi rimangono da un anno. Un anno dopo che la terra in Emilia ha cominciato a tremare.
I tuoi ricordi sono molto simili ai miei che quelle scosse le ho vissute a Modena. La casa che trema e ti tradisce, dormire vestiti e stare con le valigie in mano, non riuscire a chiamare la tua famiglia perché i telefoni non vanno, e passare la giornata al parco, senza sapere com’è in casa, se ci sono danni, se si può rientrare. E sapersi davvero fortunati, perché 30 km più in là c’è stato il finimondo.
È passato un anno, ma io ogni sera, mentre mi addormento, penso a quella scossa notturna.
Ancora dopo un anno, tutte le volte che sento un rumore forte o una vibrazione guardo il lampadario.
Il senso di impotenza per essere lontani dalla famiglia, la paura a stare in casa ci sono sempre, latenti ma ci sono.
E pensare che è passato un anno e ci sono persone che in casa non ci sono ancora tornate…
Finale Emilia, 20 maggio. Abito li, in centro storico, siamo anche stati zona rossa (WOW!).
Sorrido sapete? Sorrido perché siamo ancora tutti e tre nel nostro appartamento, perchè quest’anno mi ha dato tanto umanamente parlando, cominciando da Panzallaria che mi ha trovato un camper dove passare i periodi più brutti, passando per i fantastici Lia e Gianni che ci hanno prestato il mezzo delle loro vacanze senza chiedere neanche di essere ringraziati, continuando con tutti quelli che ci hanno dimostrato concretamente la loro disponibilità e ci hanno aiutato.
Sono più forte e più debole di allora. Più forte perchè so che insieme si può superare anche un terremoto, più debole perchè la paura non mi lascia più.
Sorrido e piango però nel constatare che poco è cambiato nella bassa e il mio paesello dove avevo tutto quel che mi serviva rimane ad un anno troppo appeso ai puntelli di legno che hanno messo i vigili. Piango nel vedere che chi DOVEVA starci a fianco ha tolto le tende.
Siamo molto meglio di chi ci rappresenta.
Mi fermo qui perchè voglio che nel mio cuore e nel vostro, rimangano i gesti di chi, senza avermi mai visto, mi ha aiutato davvero. E il mio profondo, sincero, traboccante GRAZIE..