Paola Caruso e lo sciopero della fame
Paola Caruso è una giornalista che da 7 anni lavora al Corriere della Sera con contratti co.co.co.
I contratti co.co.co. non potrebbero essere rinnovati per più di 2 anni di seguito, per quanto ne so.
Paola Caruso ha fatto la sua gavetta, come migliaia di precari in Italia, perché sperava di essere assunta. Sul suo tumblr racconta invece un’altra storia:
Sciopero della fame e della sete, dopo le prime 24 ore. La novità è che ho bevuto. Mi hanno convinto gli amici, ma vado avanti con lo sciopero della fame.
Per chi mi ha chiesto i motivi della protesta ecco qualche dettaglio. Spero di essere chiara: al momento sono un po’ cotta e parecchio stanca.
La storia è questa: da 7 anni lavoro per il Corriere e dal 2007 sono una co.co.co. annuale con una busta paga e Cud. Aspetto da tempo un contratto migliore, tipo un art. 2. Per raggiungerlo l’iter è la collaborazione. Tutti sono entrati così. E se ti dicono che sei brava, prima o poi arriva il tuo turno. Io stavo in attesa.
La scorsa settimana si è liberato un posto, un giornalista ha dato le dimissioni, lasciando una poltrona (a tempo determinato) libera. Ho pensato: “Ecco la mia occasione”. Neanche per sogno. Il posto è andato a un pivello della scuola di giornalismo. Uno che forse non è neanche giornalista, ma passa i miei pezzi.
Ho chiesto spiegazioni: “Perché non avete preso me o uno degli altri precari?”. Nessuna risposta. L’unica frase udita dalle mie orecchie: “Non sarai mai assunta”.
Non posso pensare di aver buttato 7 anni della mia vita. A questo gioco non ci sto. Le regole sono sbagliate e vanno riscritte. Probabilmente farò un buco nell’acqua, ma devo almeno tentare. Perché se accetto in silenzio di essere trattata da giornalista di serie B, nessuno farà mai niente per considerarmi in modo diverso.
Lo sciopero è iniziato 3 giorni fa e immediatamente la notizia ha fatto il giro della Rete, Paola ha trovato tantissima solidarietà e un blog famoso come Macchianera si sospende in sua solidarietà.
Anche il Post racconta la storia di Paola e riflette sulle questioni in campo, in questa situazione:
Si incrociano due questioni, quindi. La prima sono i sette anni consecutivi di precariato, una condizione indubbiamente iniqua, vessatoria e probabilmente illecita, in ragione della quale molti lettori e commentatori hanno consigliato a Paola Caruso di fare causa al Corriere della Sera, citando i numerosissimi casi di lavoratori nelle sue condizioni che hanno seguito con successo questa strada. I contratti di collaborazione non prevedono ferie né malattia, tredicesima, aspettativa o periodi di maternità, così come tutti gli altri diritti previsti dai normali contratti di lavoro dipendente. Non sono contratti fatti per essere ripetuti sistematicamente, senza fine, come invece viene fatto da moltissime aziende italiane, testate giornalistiche comprese. Quella di Paola Caruso non è una condizione rara: centinaia di giornalisti in Italia si trovano da anni in queste condizioni, e chissà per quanto lo saranno ancora.
La seconda questione è l’assunzione al Corriere della Sera in funzione del posto liberatosi. I quotidiani italiani hanno infatti molti collaboratori, fondamentali per la fattura del giornale ma che non figurano ufficialmente nell’organico, essendo contrattualizzati come co.co.co o co.co.pro. Alcune testate, negli anni, hanno stipulato degli accordi con i sindacati dei giornalisti perché al momento di assumere qualcuno sia data priorità ai collaboratori esterni, secondo il grado di anzianità; altri obiettano che a fronte di una situazione legislativa iniqua, un sistema del genere sostanzia un’ulteriore ingiustizia, privilegiando l’anzianità di servizio alle qualità del singolo giornalista e privando il direttore e l’editore del loro diritto a scegliere liberamente chi assumere, senza graduatorie.
Il fronte della solidarietà e dello sdegno per il trattamento riservato alla donna – che è spesso il trattamento di tantissimi precari – è rotto solo dalle perplessità di Matteo Bordone che in post fa qualche riflessione:
Lo sciopero della fame (quello della sete è rientrato presto) si interromperà nel momento in cui RCS assumerà Paola, mi viene quindi da pensare. Non assunzione per meriti, allora; non per anzianità: assunzione per sciopero della fame. Quando si dice andare orgogliosi dei propri gesti, del riconoscimento del proprio lavoro e delle proprie capacità. Uno sciopero iniziato, tra l’altro, per ribadire non un diritto sancito dalla legge, ma un porcamiseria.
Lo sciopero della fame è uno strumento serio, dal forte valore simbolico. Chi lo inizia lo fa perché rifiuta civilmente una ingiustizia talmente profonda da meritare che si vada oltre il dissenso dialettico: le parole non bastano più, dico «NO» con il mio corpo. Non è un suicidio, non è un’automutilazione, ma è nello stesso campionato. Smuovere questo tipo di simbologia, fare uno sciopero della fame perché, cacchio, proprio adesso che toccava a me, è un gesto misero e narcisistico: non merita solidarietà. Questo per quanto riguarda lo sciopero. C’è poi la questione del caso specifico.
Cerco di focalizzare i punti nevralgici – a mio avviso – della vicenda
- una donna si adegua a contratti di collaborazione nella speranza di essere assunta (magari a tempo indeterminato) in un giornale
- al momento in cui la donna sperava/credeva/intravedeva la possibilità di questa assunzione, qualcun altro viene scelto al posto suo
- la donna decide di fare uno sciopero della fame
- la donna è una giornalista
Secondo me quello che emerge da tutta questa storia è che al di là del fatto in se’, della situazione personale di Paola, in lei sembrano immedesimarsi moltissimi precari.
Precari non per scelta, è evidente, ma per obbligo. Precari che continuano comunque a coltivare il progetto del posto a tempo indeterminato.
Ma in lei si immedesimano in generale moltissimi lavoratori vessati da condizioni non soddisfacenti.
Paola ha scelto un gesto estremo, ovvero lo sciopero. Il dilagare del lavoro precario (in ogni sua forma contrattuale) non è roba di oggi e altrove -a fronte di leggi poco inclini alla stabilità dei giovani che si immettono nel Mercato del Lavoro – si sono organizzate grande manifestazioni, interi Paesi come la Francia si sono fermati.
In Italia la mia generazione ha fatto finta che il problema non esistesse o lo ha aggirato puntando all’aiuto dei familiari.
Non abbiamo mai sviluppato quella che si potrebbe chiamare impropriamente una “coscienza di classe”, solo oggi cominciamo a percepire di fare parte di una “generazione” che del precariato ha fatto per forza o per virtù il suo stile di vita principale.
3 giorni fa una persona decide di fare un gesto eclatante e sembra quasi che lo faccia a nome di una intera categoria. Credo che dovremmo riflettere su questo, sulle nostre personali e collettive responsabilità.
Fino a quando cercheremo in altri il leader, colui che si fa carico di tutte le nostre frustrazioni e non faremo nulla, non potremo mai sperare che la situazione cambi e che
in casi analoghi a quello di Paola (e sono davvero tantissimi, anche in ambiti meno “privilegiati” di quello giornalistico)
si possa ottenere il sudato “posto a tempo indeterminato” se non con uno sciopero della fame (che in qualche modo rappresenta un ricatto, nel suo essere eclatante).
Poi, altra domanda che secondo me ciascuno di noi dovrebbe porsi è: siamo davvero sicuri di volere il posto a tempo indeterminato? siamo davvero sicuri che il lavoro – inteso nel modo in cui lo intendevano i nostri genitori – sia ancora quello, che la Società non debba accogliere delle alternative e che dovremmo cercare quelle invece di arroccarci sulla tradizione?
Detto questo, Paola ha tutta la mia solidarietà umana.
Sta mettendo in gioco moltissimo e ha il merito di aver sollevato una questione importante. Mi piacerebbe che ci ricordassimo che la sua storia va oltre la sua storia personale e che questo ci aiutasse, come generazione, a rifletterci su, anche grazie a pensieri contrastanti, come quello di Bordone.
Ironia della sorte: scopro da google che Paola Caruso ha una omonima che sta tentando la carriera di velina…anche in questo mi sembra di intravedere un disegno che parla bene dei tempi attuali, del nostro Paese e della condizione della donna.
Fran ho condiviso il link su Facebook perchè comunque a livello umano, capisco la rabbia di Paola.
Ma le riflessioni di Bordone le ho fatte anche io e pertanto le condivido.
Diciamo che anche io avrei fatto qualsiasi cosa (forse) per ottenere un lavoro vero che andasse oltre la precarietà. Ma, poi, a lungo andare, quanto mi sarebbe pesato essere etichettata per quella che “è stata assunta per non farla morire”? Lo trovo un gesto di pena e non basato sulla meritocrazia. Questo gesto non cambierà il sistema…forse servirà solo ad indebolirlo ulteriormente creando dei precedenti!!
@bismama: concordo con te, soprattutto sul fatto che non è in questo modo che possiamo sperare di cambiare il sistema. dovremmo lottare per leggi eque e perché prevalga la meritocrazia
Bel post Panz, davvero. Dopo i deliri letti ieri ci voleva qualcuno che, con pacatezza, ricostruisse i passaggi della vicenda evidenziando i punti centrali…
@claudia: grazie mille! ieri non ho voluto appositamente scrivere ma leggerne, perché sentivo che per quanto mi riguardava, avevo bisogno di andare oltre l’emozione, l’empatia e cercare di trarre qualche conclusione (opinabilissima) più a lungo termine anche sul “fenomeno”, su come la rete ha affrontato la cosa.
Ciao, condivido con te quanto il precariato pesi in particolare sulla nostra generazione.
Io mi considero fortunata perchè mio marito ha un contratto a tempo inderteminato che ci ha permesso di fare scelte concrete per avere una famiglia “normale”. Come persona, con il mio lavoro da precaria, mi sento bloccata in un eterno presente. Presente che non mi permette di crescere nel lavoro, di fare esperienze continuative, di ridurre le energie in eccesso dell’eterna novizia. La mia consolazione è che con il tempo passo meno notti insonni pensando al futuro e mi concentro sulle cose belle del mio presente. Seguirò Paola.
Ciao Francesca,
ricordo questo orrendo precedente che mi colpì non poco e che, francamente, non so bene quanto sia rimasto scolpito nell’immaginario della nostra generazione, a proposito di coscienza di classe inesistente.
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2010/05/14/news/si_sven_per_mancato_pagamento_asl_muore_infermiera-4054909/
Concordo sulla possibilità limite che, alla fine, questa donna “venga assunta per non morire”, espressione quanto mai incredibile nella sua semantica carica di simboli contemporanei ancorchè contraddittori, in quanto, lasciarsi morire per poter ottenere quello che si ritiene essere un diritto acquisito con grandi sacrifici di tenacia, forza, ambizione e resistenza, mi pare assai lontano da una moderna teoria di lotta di classe. Tuttavia, non sottovaluterei la potente carica simbolica di questo gesto, come creazione di un precedente importante, ma mi pare chiaro che, affinchè questa protesta si sleghi da una logica individualistica per essere inglobata in quel concetto di creazione di una coscienza collettiva contemporanea, sia assolutamente necessario che venga supportata in maniera forte e decisa dagli attori della rete (e non) che ne sono interessati e che la condividono.
Concordo in pieno con te. Come sai, sono stata precaria anche io (ah, già, pure adesso ahhaaa). Ma al secondo rinnovo di contratto a tempo determinato, ho detto: no, io la pausa di 15 giorni per essere riassunta come precaria, non la faccio, è illegale. E me ne sono andata.
Lo so che non tutti possono andarsene, ma nemmeno io potevo. Non avevo genitori che mi pagassero il mutuo o mi dessero la busta a fine mese. Eppure non sono mai stata senza lavoro.
Non voglio dire che lei non abbia diritto ad essere assunta. Ce l’ha.
Ma deve farsi assumere andando dal suo capo e dicendo: adesso mi assumi. Deve usare la sua professionalità, la sua capacità contrattuale e di contrattazione, i suoi meriti.
Io poi, nel contratto a progetto, non trovo nulla di demoniaco: io guadagnavo di più di chi era dipendente, ero più autonoma, stavo meglio. Però bisogna che il singolo, nel momento in cui accetta un contratto a progetto, lo contratti per bene: DEVE essere un contratto a progetto vero, e non un’escamotage dell’azienda per pagarti meno. Perchè a progetto DEVI essere pagato di più, visto che i rischi di impresa (se così vogliamo chiamarli), sono a tuo carico.
Sono d’accordo con te, Francesca, scrivo solo per dire la mia a proposito di Bordone, il quale, mi pare evidente, fa il solito errore di chi giudica in assoluto ergendosi a latore di principi inossidabili.
Paola non vuole “l’assunzione per sciopero della fame”; chi pensa una cosa del genere o è stupido o è in malafede. Come si legge dalle sue parole, Paola vuole essere trattata con dignità. Vuole che un dirigente del giornale si assuma delle responsabilità comunicando pubblicamente il perché della scelta di un uomo palesemente inesperto al posto suo – o anche al posto di altri. Lei rivendica non il posto, ma l’applicazione di una scala meritocratica palese, qualunque essa sia. Non vuole il SILENZIO; non vuole che NESSUNO risponda delle azioni di una azienda. Vuole una persona che si assuma delle responsabilità nel comunicare e nel sostenere le ragioni di un’azienda nei confronti di un lavoratore. Poi, in altre sedi, se lo si riterrà opportuno, si discuterà dei criteri applicati. Ma che NESSUNO spieghi, NESSUNO parli, NESSUNO sia responsabile è una evidente lesione della sua dignità professionale alla quale lei ha reagito con l’estrema decisione dello sciopero della fame. Pensare che basti digiunare per essere assunti è una cretinata degna di chi la pensa e di chi la attribuisce a qualcun altro – anche perché allora Paola sarebbe la centomilionesima a provarci, non credete? Mi pare proprio che la questione in gioco sia un’altra. Il direttore del giornale può decidere chi assumere? Bene. Lo dica pubblicamente; dica pubblicamente il perché Paola no. E’ nella sua facoltà il decidere chi, è nei diritti di Paola sapere perché.
premesso che dò tutta la mia solidarietà a Paola, credo che il punto non sia l’essere precari in se o avere un contratto a tempo indeterminato. il punto è che non mene frega niente di avere un contratto a termine se so che nel momento in cui perdo un lavoro ne trovo un altro adeguato al mio livello culturale e competenze, che trovare un nuovo lavoro (o mantenere quello che ho) dipenderà solo dalle mie capacità e non dalle raccomandazioni che non ho o da chi mi porto a letto. in più starei tranquilla se sapessi che la maternità mi sarà pagata allo stesso modo di chi ha un contratto a tempo indeterminato, che il contratto mi verrà rinnovato anche se sono incinta o quando tornerò dalla maternità (qui capita anche a donne a tempo indeterminato di non avere più un lavoro dopo la maternità…). in oltre se i co co pro venissero rispettati come tali (e cioè orari flessibili e presenza non obligatoria in ufficio) e fossero intesi come collaborazioni temporanee non ci vedo nulla di male. purtroppo non è quasi mai così. ma soprattutto ci vedo una carenza legislativa. la legge certe cose non dovrebbe permetterle e dovrebbe sanzionare i datori di lavoro che abusano di queste forme contrattuali. il problema è che per come stanno le cose oggi certi diritti ormai sono dei privilegi, non voglio giudicare questa storia particolare perchè per quanto se ne legga non sappiamo davvero come stanno le cose. so solo che il modo in cui questo paese tratta i lavoratori, e soprattutto il modo in cui certi lavoratori si lasciano trattare è vergognoso.
C’è una questione generale – la precarietà – e una particolare – il giornalismo – che nello specifico non si sovrappongono poi molto, secondo me.
Mi ci fa pensare l’intervento di Mammafelice, che tocca una delle antiche questioni del mondo giornalistico: essere pagati il giusto. Per chi non fosse del mestiere, appartenere all’Ordine non garantisce affatto di essere pagati nemmeno al minimo del tariffario – non siamo avvocati o medici, qui si contano le righe, si lavora a cottimo battuta per battuta, solo quando il pezzo viene pubblicato a discrezione dell’editore. Il cococo è consentito per chi appartiene a un ordine professionale, ma la cosa assurda è che c’è una continuità di collaborazione sfibrante, paragonabile a un rapporto di dipendenza. Ed è quello che ha fatto incavolare Paola. Lei, come tutti gli altri, salvo i baroni del giornalismo, non può sbattere il pugno sul tavolo per essere pagata il giusto. Se le è passato davanti un tizio uscito dalla scuola di giornalismo, pensate che non ci siano persone pronte anche a lavorare gratis pur di scrivere per il Corriere? Sappiate che ce ne sono tanti, soprattutto giovani. A voglia far capire che così si rovina tutto, che nessuno ci guadagna se non l’editore. Ormai la frittata è fatta, si va al ribasso – di compensi e qualità del lavoro, anche di dignità – e a chi come Paola resta la pagliuzza in mano tocca subire. Altrimenti ti trovi un altro lavoro. Ho elenchi numerosi di gente messa come lei… Quello che l’ha fatta più incavolare credo sia quel senso di invisibilità che soprattutto le donne vivono in questo mestiere: molte diventano delle bestie per essere riconosciute, delle vere carogne.
Pensiamo però che giovi questa instabilità all’informazione? Che serva ad avere bravi professionisti, che si smazzano per verificare notizie, per cercarle, che fanno orari folli e vita zero, che sanno costruire inchieste dense, fare ricerca a prescindere se il giornale li tuteli o meno, gli copra le spalle, anche solo con un contratto ridotto al minimo, ma un vero contratto di lavoro? Sono pochi, davvero pochi i freelance che se la cavano in questo mestiere, ma non voglio dilungarmi. Senza contare che una scuola post laurea di giornalismo costa in media 20mila euro: è questo il prezzo dell’esperienza? Pensate che si possa pagare lavorando un master o che invece non sia papà a saldare il conto? Salvo qualche caso speciale, avete già capito come la penso in proposito…
Sono d’accordissimo con Lorenzo. Qui non si tratta di volere essere assunte attraverso lo sciopero della fame, qui si tratta di voler far emergere la situazione di ingiustizia e precarietà che colpisce un’intera generazione. Anch’io sono una precaria “camuffata” da libera professionista….sì…perchè l’amministrazione pubblica ( e sottolineo PUBBLICA) per cui lavoro impone a tutti i collaboratori esterni la P.IVA e non sarebbe tanto assurdo se avessimo la possibilità di comportarci da liberi professionisti, ma il fatto reale e cruciale è che ci impongono un orario di ufficio ben preciso e l’impossibilità di lavorare per altri committenti. Io capisco molto bene Paola e anche se ho scelto altre strade per lottare, forse meno drastiche, ma non meno importanti, condivido il suo gesto e lo trovo anche coraggioso. Perchè Paola sta rischiando la vita!Se tutti i precari e le precarie d’Italia si mobilitassero (ad esempio, come è stato già detto,come hanno fatto in Francia) non ci sarebbe bisogno di arrivare a tanto!
@ilaria: secondo me bisogna tenere alta l’attenzione sull’impegno collettivo, di cui c’è grande bisogno e fare in modo che questa storia non diventi solo un pretesto per schierarsi da una o dall’altra parte ma un’opportunità di riflessione, come sta succedendo nei bellissimi commenti a questo post! grazie a tutti anzi e spero continui il dibattito
Si certo, mi pare, dalle parole di Lorenzo, che Paola voglia ciò che tutti noi vorremmo dentro la “nostra” organizzazione, ma che nella realtà non accade mai. Ciò che lei scrive riguardo l’assunzione del “pivello” al suo posto, è una questione quanto mai comune e diffusa. Ritrovare dinanzi a sè, gli ultimi arrivati che fanno carriera o vengono assunti al tuo posto, per motivi insondabili e indecifrabili, senza che nessuno, nell’ambito della tua azienda/organizzazione, si assuma alcuna responsabilità o prenda la parola, o spieghi o giustifichi è un qualcosa di talmente banale e diffuso e stra-vissuto che quasi mi viene da sorridere. Il sostegno a questa persona deve essere forte e la risonanza da dare massima, ma non pensiamo, vi prego, che con uno sciopero della fame si possano modificare i comportamenti omertosi trainati da interessi politici ed economici all’interno delle organizzazioni. Io continuo a credere in un potere simbolico della questione, che può andare a sommarsi ai numerosi altri gesti di protesta in tal senso.
Un bel post, ma io non mi trovo d’accordo con te quando ti chiedi (e lo fai spesso nel tuo blog) se davvero qualcuno vuole ancora il posto a tempo indeterminato. Mi pare, infatti, che questi contratti co.co.co e il precariato in generale non siano affatto una scelta , ma un’imposizione esercitata dalla parte contrattualemente più forte. Stai attenta, perchè quando ti interroghi in questo senso, tendi portare acqua al mulino avverso e rischi anche di sembrare un po’ snob nei confronti di chi ormai ANELA al posto fisso.Perchè il precariato è attualmente un problema per il Paese Italia.
Perchè chi è precario, molto spesso, non si rassegna a non potersi appoggiare su di un lavoro “solido”, per dirigere le proprie energie anche in altri aspetti della propria vita. Perchè chi è precario, quando non potrà più lavorare, non avrà una pensione sufficiente a farlo soppravvivere.
Nessuno contesta che vi siano persone che non ambiscono al posto fisso. Un tempo quelle persone godevano di compensi tali da permettere loro di rimanere senza lavoro tra un contratto e l’altro senza particolari pensieri economici.
Ora, in genere , i co.co.co sono pure sottopagati.
Per quanto riguarda lo sciopero della fame, potrei anche comprendere le perplessità di Matteo Bordone. Sta però il fatto che la condizione dei precari continua ad essere ignorata da tutti e così, chi si trova in quella condizione, fa come meglio può.
Perciò, per quanto mi riguarda, Paola Caruso, ha tutta la mia solidarietà.
Una lavoratrice a tempo indeterminato
@ex precaria: chiedersi se vale ancora la pena di pensare che l’unica alternativa sia il posto fisso (e non significa invece pensare che tutti non debbano volerlo) non significa pensare che il lavoro precario sia una cosa giusta. Come ho scritto qui, io credo che si debbano cercare delle alternative. Vedo molto chiaramente (anche e prima di tutto sulla mia pelle) quali sono i danni collaterali del lavoro precario (pensione, precarietà negativa) ma penso che dobbiamo cercare ANCHE (oltre al tradizionale lavoro dipendente) alternative supportate da leggi eque (e qui mi sembra di affermarlo chiaramente) e che dovremmo tutti impegnarci molto (manifestando e facendo cose che vadano oltre i gesti dei singoli o l’investimento ad altri delle nostre responsabilità) per migliore una situazione generale molto critica.
@Francesca: sono sostanzialmente d’accordo con il tuo post. Un solo appunto. La questione “flessibilità vs posto fisso” è un tema annoso. Che però da tempo è stato sciolto in questo modo: è giusto che chi ha voglia/mezzi/possibilità faccia le sue esperienze e colga nella flessibilità tutte le possibilità del caso. Ma quando la flessibilità non è una scelta, ma diventa un ricatto, è importante che le istituzioni intervengano dal punto di vista legislativo per riequilibrare la questione. Nel Nord Europa si chiama flexsecurity e dice che in cambio della flssibilità in uscita hai formazione e reddito garantito. Invece la flexsecurity de noialtri applicata in Italia postula che intanto si abbassa il costo del lavoro così e poi si vedrà. Solo che questo “trucchetto” a 13 anni dalla legge Treu e 8 dalla legge 40, in tempi di crisi non funziona più. A me sembra che la vicenda di Paola sia stata il classico fiammifero nella steppa (http://ur1.ca/2crdi). E sono d’accordo con Cogo che ha parlato di un’opportunità non colta (http://www.webeconoscenza.net/2010/11/15/il-berlusconi-che-e-in-tutti-noi/). Faccio notare che sindacati e cdr si sono mossi dopo che la vicenda è scoppiata (http://paolacars.tumblr.com/post/1581630038/cdr-su-paola-caruso-di-ieri-sera). Vicenda che evidentemente si colloca nel più ampio quadro di vertenze rese pubbliche dalla famosa lettera di De Bortoli (http://www.corriere.it/economia/10_settembre_30/lettera-de-bortoli_2d41fc98-ccd0-11df-b9cd-00144f02aabe.shtml). E questo spiega anche perché Matteo Bordone è fuori strada. Come ho scritto in altro commento: “Apprezzo Bordone quando si occupa su Wired della Delorean elettrica. Meno in questo articolo che contiene diverse imprecisioni. Rcs non sarà la magistratura, ma è soggetta alla normativa sul lavoro come altri privati. Che, impone, per esempio la regolarizzazione dopo anni di precariato. Io non so se Paola Caruso può avvalersi di qualche norma di legge. So, però, che spesso in questo paese, per avere giustizia, bisogna chiederla fuori dai palazzi. E lo sciopero della fame è un modo nonviolento molto concreto per farsi sentire. Tanto più che Bordone mi sembra tradisca qualcosa di più che una banale idiosicrasia ideologica visto che se la prende con lo sciopero perché unisce “sia i retaioli frustrati che i nostalgici dei posti fissi del parastato” mentre se “avessimo a che fare con una testata Mondadori, si darebbero fuoco sulle piazze di Second Life, come quel tizio su una copertina dei Rage Against The Machine”.
Ti ringrazio anch’io per il post riassuntivo e il tono equilibrato. Mi piace il fatto che nel tuo post e nei commenti di tutti prevalga un atteggiamento non polarizzato che lascia posto anche ai dubbi. Spero, ma non ne sono sicura, che serva a riaccendere un dibattito che deve tener conto di una situazione complessa in cui gli ostacoli sono costituiti da datori di lavoro opportunisti, uno stato che non tutela i lavoratori, un sindacato arretrato, un paese per vecchi che continua a considerare il ricambio generazionale un optional, lavoratori che oscillano tra giuste rivendicazioni e pretese che mancano di senso della realtà e una crisi economica che obbliga tutti a ripensare il futuro su basi diverse.
Uf!questo è un post difficile da “digerire”. Riclamare l’assunzione mi pare giusto ma il modo di farlo sorprendente, io c’ho pensato e non lo farei mai, no se la mia salute é in gioco, no perché la ditta non se lo merita, no perché, anche se la contrattano a tempo indeterminato, nessuno l’assicura che sarà piú contenta né piú sicura.
Il problema é il precariato, sia in Italia, sia in altri paesi dell’Europa (fra quelli il mio, la Spagna). Contro di quello dovremmo lottare ma, purtroppo, i giovanni parliamo molto ma facciamo molto poco, ed io la prima…
Mi pare che, in fondo, sia un problema culturale, quello dei nostri genitori, che quando ti contrattano a tempo indeterminato fanno una festa come se fosse il tuo matrimonio (anche se tu, contenta ne sei poco).
Concordo con quello che ha detto Fabiana, parola per parola. Il problema,per questo specifico settore, è essere pagati il giusto, il problema è un Ordine che non tutela questo diritto ma che si è inventato le Scuole a cui si accede a caro prezzo e dalle quali poi l’Ordine stesso ti smista in posti di lavoro dignitosi. Cosa che l’Ordine non fa e non ha mai fatto per tutti gli altri suoi iscritti.
Non entro nel merito della questione specifica, perche’ non la conosco. Voglio solo ribadire che le domande che si pone panzallaria sul posto fisso sono necessarie. Io vivo da 6 anni negli Stati Uniti. Qui il lavoro a tempo indeterminato di fatto non esiste, in molti stati sei assunto “at will”, ovvero il tuo datore di lavoro puo’ licenziarti quando vuole (tu puoi fare appello in caso di discriminazione). Non parliamo poi del congedo per maternita’: 12 settimane, non necessariamente retribuite (dipende dallo Stato, dal datore di lavore e dalla tua eligibilita’). Potrei continuare con le pensioni, l’assistenza medica…. ma insomma non mi sembra un paradiso. La vera forza dell’America, secondo me, sta nella qualita’ e quantita’ delle offerte di lavoro, crisi economica permettendo. Non sara’ che in Italia ci si ‘avvinghia’ al posto fisso o precario che sia, perche’ consapevoli che le alternative sono quasi sempre pari a zero? Insomma, per me e’ principalmente un problema di scarsita’, di opportunita’ che mancano. Sono anche convinta che la mobilita’ favorisca anche la meritocrazia, ma non voglio dilungarmi oltre.
Un saluto a precari, indeterminati e disoccupati.
Teodora
Ciao Francesca,
come spesso accade mi ritrovo pienamente in quello che scrivi. Mi ha colpito in particolare il tuo accenno alla nostra generazione, all’indifferenza e alla passività con cui abbiamo accolto il dilagare del precariato affidandoci alla famiglia come ammortizzatore sociale… è una considerazione che ho fatto spesso anch’io. Ho lavorato per due anni come co.co.co con contratti annuali, e quando è entrata in vigore la legge Biagi i miei datori di lavoro si sono rifiutati di assumere, anche solo a tempo determinato, me e altri colleghi nella stessa situazione. Hanno licenziato una parte di collaboratori senza alcun preavviso, dalla mattina alla sera, con una telefonata. Io e gli altri “graziati” ci siamo visti proporre contratti a progetto di durata variabile, da una settimana a pochi mesi. Insieme a qualche collega abbiamo tentato la strada del sindacato, ma al momento di fare qualcosa di concreto quasi tutti si sono tirati indietro per paura di perdere i loro sudati “privilegi”, ovvero contratti capestro senza alcuna garanzia. Quando provai a sollevare, tra gli altri, l’argomento contributi e pensione, ricordo che mi sentii rispondere “è troppo presto per pensarci”. Poco tempo dopo, come hai ricordato tu chiamando in causa (non certo “impropriamente”!) la coscienza di classe, i giovani francesi sono scesi in piazza con i genitori, in massa, per lottare contro i nuovi contratti proposti dal governo. Siamo lontani anni luce da tutto questo, purtroppo. Anch’io vorrei che, dopo aver dato il giusto risalto al dramma di Paola Caruso, ci spingessimo oltre tentando una riflessione di carattere generale e se vogliamo “generazionale” sul precariato e sull’enorme contributo che in tanti hanno dato, tacendo, alla sua diffusione. Grazie di cuore per aver sollevato questo tema.
Sono molto d’accordo con Teodora.
Secondo me un contratto a tempo non è il male assoluto, ma è importante che, ancora prima di fare una lotta di classe e generazionale, ciascuno lotti per se stesso. Ad un lavoro mal retribuito, una finta P IVA o un progetto-non-progetto, si può anche dire di no. Se ciascuno forma innanzi tutto la sua coscienza di lavoratore e di cittadino, la rivoluzione inizia dal basso. Impariamo a non farci sfruttare, perchè lo sfruttamento non è un passo obbligato per lavorare.
Ciao Mammafelice,
è vero, le rivoluzioni devono iniziare dal basso, ma credo che una maggiore consapevolezza e “formazione” a livello collettivo potrebbe rendere i singoli lavoratori più forti e coscienti dei propri diritti e della propria professionalità, incoraggiandoli a rifiutare proposte svilenti.
Probabilmente Paola Caruso ha scelto l’unica strada che le potesse dare visibilità; quella della spettacolarizzazione della sua protesta. Se si fosse rivolta ad un giudice del lavoro, quanti di noi parlerebbero di lei in questi giorni? Non voglio giudicare l’appropriatezza o meno della sua scelta: credo semplicemente che non l’abbia presa a cuor leggero, e questo basta. Forse se avesse avuto altre possibilità non sarebbe arrivata a questi punti. Ma di fronte ad un sindacato che cala le braghe ed è diviso proprio in un periodo di crisi, o a dei colleghi che spesso pensano in primis a fare i propri interessi, la coscienza collettiva credo stenti a farsi strada.
Intanto posto questa lettera-riflessione della Alessandra Pigliaru…
http://gliocchidiblimunda.wordpress.com/
mi trova concorde su molte cose.
Non voglio che si confondano i piani: la solidarietà non viene dal fatto di decidere di seguire uno sciopero della fame, la solidarietà viene dal coraggioc hequesta donna mostra nel denuncire una situazione a livello mediatico.
Io sono una delle “povere sciocche” che finchè è stata dentro un’azienda (che aveva mooolti rapporti col Pubblico)ha provato a lottare per sé e per le sue colleghe perché fossero applicati contratti di lavoro conformi alle mansioni svolte.
Il risultato? Buttata fuori dalla mattina alla sera, con il beneplaciito delle colleghe che il lavoro se l’erano tenuto stretto,e con una simpatica scoperta: quella che il mio titolare aveva tutti i diritti di legge per farlo.
Ho lottato, coi sindacati, l’ho minacciato di denuce..per non rischiare di perdre tutto ci siamoaccordati.
Ora lui sta facendoa una mia collega quello che ha fatto a me.
Bordone e chi per lui, mi taccerà di essermis vegliata solo quando stavo davvero alla frutta?
Qui c’è una situazione generale a cui tutti ci stiamo così adeguando da credere che neanche lo vogliamo più, un lavoro “vero”.
Francesca, qui il problema non è se il lavoro come era fatto dai nostri genitori vada più bene nella società contemporanea: qui il punto è che qualsiasi lavoro viene erogato come una sorta di concessione, non un diritto!!!
e se per svegliarci abbiamo bisogno degli eroi: BEN VENGANO QUESTI EROI!!!
Vogliamo fargli il processo perchè si sono messi loro in prima fila? o peggio, vogliamo farci delle riflessioni con tanto di complesso di colpa per non esserci svegliati prima anche noi (come generazione, come dici tu!)
Bene, NON CI SIAMO SVEGLIATI, NON C’E’ STATA UNA COSCIENZA DI CLASSE…MEA CULPA!!!
Ora prendiamo sta palla al balzo..e incazziamoci di brutto.
Scusate se sono un po’ delirante: scritto di pancia e di viscere!!!
Non abbiamo mai sviluppato quella che si potrebbe chiamare impropriamente una “coscienza di classe”,
Fino a questa frasi scrivi cose sacrosante, sulla base delle quali non si capisce perchè poi concludi come concludi.
“in casi analoghi a quello di Paola (e sono davvero tantissimi, anche in ambiti meno “privilegiati” di quello giornalistico)”.
Sì ma degli altri ambiti si parla di più: Università, scuola, ricerca scientifica, pure i call center. Ma di una protesta dei precari dell’informazione quando mai se ne è parlato? chi mai ha protestato? chi mai è salito sulle gru? Nessuno. La prova di ciò sta nel fatto che tanti come te credono che quello del giornalismo sia ancora un ambito “privilegiato”. Una volta forse… Un collaboratore esterno prende in media 5 euro al pezzo e spesso ha tutte le spese a carico compresi telefono e spostamenti. Le tariffe imposte dell’Ordine non le applica nessuno. Il mio compagno, redattore di prima nomina, assunto a tempo indeterminato, paraculo assoluto, lavora per lo stesso giornale da oltre 10 anni e prende 1300 euro. Fino a un anno fa erano 1000. E poi non è neanche solo un questione di soldi. In tematiche astruse come la dignità della professione, la formazione adeguata, non mi addentro nemmeno, ma ti assicuro che di privilegi ce ne sono meno che pochi.
“Poi, altra domanda che secondo me ciascuno di noi dovrebbe porsi è: siamo davvero sicuri di volere il posto a tempo indeterminato?”
Lei è sicura di volerlo. E lei sta protestando. Avrà le sue ragioni, perchè contestarle?
@agnese: quello che io mi chiedo è: siamo sicuri che Paola lo stia facendo per “noi”? io cercherei di non investirla di troppe responsabilità. Fermo restando che le sono umanamente empatica e stra consapevole del peso del suo gesto, credo che sia opportuno scindere le due cose. Da una parte c’è una persona che ha scelto un suo modo di lottare per arrivare a un suo risultato personale, dall’altra c’è la questione generale del lavoro. A mio avviso lei può certamente servire a portare attenzione su una serie di criticità, ma personalmente credo che la strada migliore per affrontarle questa criticità sia quella di una riflessione collettiva che va oltre il sostegno di questo momento alla persona in oggetto (che comunque sta lottando ora per una sua propria causa). Paola forse prima avrebbe potuto rivolgersi all’avvocato del lavoro o ai sindacati (e lei stessa dice di non averlo fatto), ha scelto lo sciopero della fame per avere un forte impatto mediatico, ecco siamo sicuri che poi non si risolverà tutto in una bolla per il resto delle persone che si sono molto immedesimate in questa storia. Io non penso che lei sia un’eroina, ma una persona che ha fatto le sue scelte e noi, contemporaneamente, dovremmo emanciparci dal cercare vie eclatanti (di altri) per documentare il nostro disagio nei confronti di una latenza legislativa e sociale molto forte come è oggi il mercato del lavoro. perché invece non provare a delineare una sorta di cassetta degli attrezzi (passatemi il termine), di pratiche efficaci perché la lotta singola diventi una lotta collettiva per migliorare i contratti di lavoro (e magari trovare alternative sia al precariato che al tempo indeterminato)? Dico queste cose con l’umiltà di trovarmi di fronte a una persona che sta facendo una cosa molto grossa, sia chiaro. Ma è la sua vita, non deve diventare un emblema per le tante situazioni, secondo me. Per altro, ma questa è la pecca della filologa che ha la fissa delle fonti, in questa storia noi abbiamo sentito solo la sua campana e alcune cose rimangono poco chiare (come ad esempio il fatto che lei dice di aver avuto un contratto co.co.co per 7 anni mentre questo tipo di contratto – che ho anche io in questo momento – non può essere rinnovato per più di due e su queste cose, soprattutto nelle grandi realtà come presumo sia il corriere, c’è un controllo serratissimo…Insomma, oltre alle perplessità sul “fenomeno” di investitura on line, secondo me sarebbe opportuno valutare tutte le campane (che probabilmente alla fine confermeranno in toto la sua versione) per stare davvero dalla parte dei bottoni e non rischiare che se vogliamo un’eroina, essa bruci una battaglia che va oltre il suo vissuto personale.
@rossa: nessuno contesta le sue ragioni. Io riflettevo sull’investitura mediatica da parte di altri, mi chiedevo se davvero tutti quelli che si sono immedesimati in lei, lo abbiano fatto riflettendo sulle loro priorità o sulle altre possibilità. Non mi permetterei mai di contestare la sua scelta, che in quanto sua e legata alla sua vita, non è giudicabile. Mi permetto di trarre da quello che la sua protesta ha scatenato in rete, alcune riflessioni. Ma c’entrano poco, in effetti, con la sua storia personale. E spero sia così: come detto sopra, Paola per me non deve diventare un’eroina dei precari ma una persona che ha fatto una scelta coraggiosa, ma prima di tutto per se stessa
ho letto i commenti con interesse e Paola ha sicuramente il mio affetto dalla sua, ma ho un’altalena di pensieri un po’ sconnessi che dovrò ragionare meglio. sicuramente non sono d’accordo con @mammafelice (16.23) “Ad un lavoro mal retribuito, una finta P IVA o un progetto-non-progetto, si può anche dire di no”, no se hai bisogno non puoi dire di no.
cristina
Cristina, TUTTI abbiamo bisogno di lavorare. Anche io ho sempre avuto bisogno di lavorare: ho un mutuo, ho una figlia, e non ho mamma e papà che mi pagano le bollette o mi fanno la spesa. E non sono nemmeno laureata.
Semplicemente io penso di essere responsabile per me stessa, e se lavoro molto bene, vado dal capo e gli chiedo quello che voglio. Il potere contrattuale si determina anche con le capacità professionali che si acquisiscono sul campo: nessuno è indispensabile, ma per un’azienda è un costo grande, perdere una persona che sa fare bene un lavoro, se sostituirla comporta un lungo periodo di formazione e rodaggio di un’altra persona.
Il mio discorso è molto semplice, e forse più rivoluzionario di quanto si percepisca: fatevi valere. Andate ai colloqui come se andaste a parlare con un vostro sottoposto, andate dal capo a contrattare come se contrattaste con un vostro pari. Chiedete sempre un miglioramento delle vostre condizioni. Non aspettate che sia il capo ad accorgersi che meritate una promozione o un’assunzione: chiedetela voi nel momento giusto, quando dire di no, e perdervi, sarebbe un problema per lui.
Io sono una di quelle pazze che ha lasciato un lavoro a tempo indeterminato per aprirsi la P IVA. Lo rifarei altre mille volte.
Capisco benissimo che non tutti sono disposti ad essere precari, e ciascuno ha il diritto di rivendicare il posto fisso, se lo desidera. E allora lo chieda, lo pretenda, lo rivendichi! Ma non arrivando all’estremo, con lo sciopero della fame, ma piuttosto arrivando al momento giusto, anticipando le mosse, andando a chiederlo PRIMA che gli venga sottratto. Possibile che abbia funzionato solo con me, che sono stupida e non laureata?
C’è da dire, poi, un’altra cosa: il contratto di un giornalista non sarà mai un posto fisso. I giornalisti hanno un contratto particolare, che non è certo come quello dei metalmeccanici. Nella professione di giornalista, così come nelle arti e spettacolo, c’è una precarietà insita proprio nel modello di lavoro. Quando si sceglie una professione, occorre valutare anche che tipo di CCNL si andrà ad occupare, e quali sono vantaggi e svantaggi.
io mi trovo abbastanza d’accordo con mammafelice, forse perché poi abbiamo due percorsi molto simili. l’unica cosa su cui ho dei dubbi (ma non ne so abbastanza) è riguardo il contratto di giornalisti. secondo me c’è un tipo di contratto giornalistico (ma probabilmente ce lo hanno solo pochissimi eletti) che ha dei privilegi molto alti ed è molto forte sul piano della sicurezza personale. ma non so, potrei anche sbagliarmi
La storia di Paola colpisce comunque, indipendentemente da come la si pensi e naturalmente si è immediatamente solidali con lei.
Lo sciopero della fame è una scelta forte, ma siamo sicuri sia veramente utile?
Esistono tutte le normative per regolamentare i contratti, di qualunque tipo. Solo il lavoro nero non ha normative. Esistono plotoni di avvocati specializzati sul diritto del lavoro, i sindacati di qualunque categoria sono felicissimi di rivendicare diritti e far valere leggi. Soprattutto in questo lungo periodo buio le cause di lavoro fioccano e nel 99% dei casi sono i lavoratori a vincere. E’ il primo passo da fare, sempre. Poi, nel caso, si smette di mangiare. E’ necessario essere molto pratici e molto informati sui nostri diritti. Ma partire dallo sciopero della fame è poco utile: purtroppo potrebbe passare il concetto di “poverina non regge lo stress!” “poverina, ma come mai non cerca altro invece di morire di fame?” “non c’è mica solo il corriere della sera in fondo, no?”. Noto che spesso siamo prontissimi a parlare dei nostri diritti, ma quando è il momento di rivendicarli optiamo per un “fai da te” pericoloso e,spesso, poco incisivo. Paola, che immagino essere una brava giornalista, avrà pure una qualche influenza sugli altri precari RCS, conoscerà altre persone nelle sue condizioni contrattuali … allora perchè non mettersi insieme e fare causa? Un co.co.pro (il co co co non esiste neppure più, abolito dalla legge Biagi del 2003) lungo 7 anni, anche se saranno cambiate le causali al ricorso se non addirittura le mansioni (escamotage delle aziende per tutelarsi dalle cause, ma non funziona), sono senz’altro una giusta mozione. Ci perderà il sonno magari su una causa così. Sempre meglio che perdere la salute, non mangiando più. Allora sì, se si ammala, avrà buttato via 7 anni della sua vita.
@wising: condivido in pieno tranne su una cosa: il co.co.co per alcune tipologie di organizzazioni esiste ancora, lo so per certo, visto che ne ho uno. Per info in merito: http://www.bloglavoro.com/2010/02/18/gestione-separata-icontributi-per-i-contratti-co-co-co-co-pro-e-a-tempo-determinato-con-i-nuovi-limiti-2010.htm
Grazie Panz per il link e chiedo venia per la botta di ignoranza :-/.
co.co.co è una tipologia contrattuale di cui non sento più da anni l’avevo rimossa (non che il co.co. pro sia meglio eh).
@wising: guarda, anche io – precaria da una vita – sono di un’ignoranza abissale su sti contratti e personalmente, questa vicenda mi ha smosso un po’ su questa cosa. Bisogna che mi impari a leggere contratti e buste paga. Forse così avrò qualche cartuccia in più da sparare…
hai visto però che bel post quello di oggi di Paola?
Il post di oggi mi piace moltissimo :)) e spero che Paola si rimetta in sesto e affronti la battaglia con tutte le forze. Il mondo dei contratti è un selva, è che spesso, non conoscendo tutte le alternative, non sappiamo come contrattare col datore di lavoro, nel modo giusto. Stasera mi metto d’impegno e se trovo una guida on line alle forme contrattuali fatta bene (e soprattutto comprensibile) te la segnalo.
Grazie per essere passata a trovarmi! 🙂
La storia personale di Paola Caruso è piena di contraddizioni e di punti opachi. Tuttavia le problematiche che porta sono reali, e sono d’accordo con la considerazioni di CosmicMummy e in generale con Francesca (da quello che so, sì, i giornalisti non precari hanno contratti con tanti privilegi).
Mi fanno incazzare, invece, posizioni come quelle di Bordone, o anche come quelle di chi si professa progressista e poi pensa che se non ce l’ha fatta a ottenere il posto significa che non se lo meritava, e che deve riguardare i suoi obiettivi, fare i conti con se stessa ecc. E dico NO: a parte la retorica di destra (il forte vince, gli altri s’arrangino. Che poi è anche una retorica fattualmente corrotta, visto che diverse volte il merito consiste solo in conoscenze), sette anni là dentro da precaria *non* significa che non sia all’altezza, che non abbia meriti, ma che il sistema non funziona, e il pensare a quel modo avvalla questo sistema marcio, nonché è la dimostrazione che questo pensiero si è tanto introiettato nelle persone che queste non si rendono conto di portare avanti discorsi conservatori, piegati al sistema stesso. Non ci si può adattare, bisogna combattere, a partire dal pensiero e dalle coscienze.